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Cosa i clienti (non) vogliono

06.11.2012

Capire come va il mercato rimane, tra gli addetti ai lavori, una vera e propria sfida. I dati non esprimono sempre tutta la realtà analizzata: laddove una più o meno grande massa si comporta in un certo modo, delle volte prevedibile, spesso è il singolo a rimanere un mistero. La ‘brand preferente’ è importante, ma spesso non determinante; il contesto, troppo spesso ignorato, si può rivelare un punto di forza sorprendente. L’ultima indagine TNS, “The Commitment Economy”, presentata all’Università di Parma al convegno “Marca e strategie di loyalty”, ha concentrato il proprio studio non sulla massa e sulla moltitudine di acquirenti, ma sull’imprevedibilità del singolo, che mostra comportamenti d'acquisto sorprendenti.

La ricerca, condotta in 17 paesi, ha coinvolto ben 39.000 persone, analizzando il ‘brand commitment’ in 8 categorie merceologiche. Il dato che maggiormente balza all’occhio, risulta subito essere quel 42% del campione che incappa nel ‘desire disconnect’, ovvero nella mancata corrispondenza tra desiderio e comportamento; in parole povere, il ritrovarsi a comprare prodotti di un ‘brand’ diverso da quello preferito. Questo può accadere a diverse categorie di prodotti, senza colpire un mercato specifico: il cambio di ‘brand’ negli acquisti può andare dalla propria marca di caffé solubile (30%) a quella di automobile, che registra la massima percentuale (74%). Registrano alte percentuali i settori dei detersivi per bucati (43%), i prodotti per la cura dei capelli (ancora 43%), il ‘retail’ (42%), le bevande alcoliche, i rimedi contro il mal di testa e i metodi di pagamento (rispettivamente al 38%, 34% e 33%). Sono tre, invece, le principali situazioni che influenzano i nostri acquisti: domina l’accessibilità economica (15%), che ci può dirottare verso acquisti meno costosi da quelli desiderati; il secondo posto va alla disponibilità fisica dell’acquisto (7%), le decisione condivise occupano invece il terzo posto (4%).

Risulta quindi evidente come il mercato spesso sia impreparato a cogliere i desideri del consumatore. “Si tratta di modelli di ‘equity tracking’ che non considerano l’importanza del contesto d’acquisto nell’analisi del comportamento effettivo” spiega Cristina Colombo, TNS Consumer Insight Director. “Nel mercato reale, infatti, i consumatori spesso spostano le loro attenzioni fra brand della stessa categoria, sulla base di ‘fattori di mercato’ che giocano ruoli diversi al momento della scelta e sono raramente presi in considerazione nei ‘brand tracking’. Valutare soltanto la ‘share of mind’ di un brand può quindi portare a considerazioni che non corrispondono ai reali andamenti di mercato”. Il principale responsabile del fenomeno del ‘desire disconnect’ risulta quindi essere la mancanza del ‘power in the market’, cioè dell’attenzione rivolta alla creazione di un ambiente che aiuti i consumatori a scegliere la propria marca preferita (prezzo, distribuzione, promozioni, visibilità). “La forza di un brand, il ‘brand commitment’ che si concretizza nella ‘loyalty’, è quindi, la combinazione di ‘power in the mind’ (attachment psicologico) e ‘power in the market’” continua Cristina Colombo. “Individuare le barriere presenti sul mercato che limitano la ‘conversion’ in acquisti consente di liberare il potenziale del brand per favorire la crescita, anche in momenti di difficile contesto socio-economico, come quelli attuali”.

Fabio Sarpa
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